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La corsa potenzia il cervello?

Nuove indicazioni per contrastare l’invecchiamento

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La pratica della corsa è una delle attività umane più antiche, un tempo correlata alla sopravvivenza. Oggi la sua forma amatoriale, il Jogging, è una delle attività fisiche più accessibili e praticate in Occidente: aiuta infatti a preservare la forma fisica e la salute, costa poco o nulla, e ci assicura un contatto con la natura. Ecco perché ogni anno aumentano i runner, e nei parchi cittadini non c’è stagione e ora del giorno in cui non se ne incontrino. Fare Jogging – a 10 km/h per 30 minuti due volte a settimana – è peraltro raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra le Linee guida per l’attività fisica 2016-2020 (edizione italiana a cura di UISP, Unione Italiana Sport per tutti, 2016).

Parte da lontano il filo che unisce corsa, benessere e invecchiamento. Una storia affascinante che vede protagonisti instancabili corridori (uomini, ma anche topi!), fa tappa negli anni ‘60, quando si inizia a ipotizzare la possibilità di rigenerare il cervello adulto, e arriva ai giorni nostri, dove – grazie a una tecnica presa in prestito dall’archeologia – lo si dimostra definitivamente, e si correla la corsa alla rigenerazione cerebrale e ai potenziali benefici psicofisici di questa attività.

I topi: runner esemplari

I dati raccolti dalla scienza negli ultimi anni su quei magnifici corridori che sono i topi (corrono spontaneamente fino a 20 km in una notte!) dicono che la corsa ha un effetto benefico sulla funzione dell’ippocampo, struttura chiave del cervello (presente in tutti i mammiferi come l’uomo) coinvolta nella regolazione di importanti attività cognitive come memoria, stress e umore: fattori che rappresentano delle fragilità nell’invecchiamento.

La corsa stimola la produzione di nuovi neuroni (neurogenesi) nella vita adulta: attività che favorisce la “plasticità cerebrale” e quindi la funzione del cervello nell’interazione con l’ambiente. La neurogenesi nell’ippocampo è stata dimostrata anche nell’uomo, e l’integrazione di nuovi neuroni in questa sede può fornire spunti per lo sviluppo di terapie non invasive che contrastino gli effetti negativi di patologie legate allo stress, o la riduzione della plasticità cognitiva che si verifica in età adulta. 

Tra i tanti dati scientifici a sostegno dell’importanza dell’attività fisica aerobica, quelli ottenuti dalla ricerca di base sviluppata sui topi indicano che la corsa è l’esercizio fisico più efficace per stimolare le cellule staminali neurali, e quindi la produzione di nuovi neuroni dell’ippocampo che regola funzioni cognitive fondamentali come memoria e apprendimento (Voss MW et al., 2013; Creer DJ et al., 2010). Inoltre, alcune patologie legate allo stress e all’ansia che determinano un’alterata percezione dell’ambiente nei modelli animali sono riconducibili a una riduzione della neurogenesi ippocampale (Kheirbek MA et al., 2012).

L’aiuto dell’archeologia

La neurogenesi adulta nell’ippocampo umano – dove per ovvie ragioni etiche il prelievo del tessuto nervoso è possibile solo postmortem – è stata dimostrata grazie a un metodo “preso in prestito” dall’archeologia: la datazione del carbonio 14 radioattivo (14C). Si può stabilire – come si fa nella datazione di reperti come la Sindone – quando una cellula in via di formazione ha assunto il 14C.

Sulla base della presenza di 14C e suo decadimento nel tempo i ricercatori hanno stimato l’attività di neurogenesi nell’ippocampo di un grande campione eterogeneo per età (1 – 90 anni) di uomini e donne deceduti per cause naturali e non. I risultati confermano che l’ippocampo dell’uomo produce nuovi neuroni nel corso dell’intera vita, probabilmente anche in età avanzata.

Il dato, poiché indiretto e oggetto di opinioni contrastanti, necessita di ulteriori approfondimenti ma, se confermato, aprirà nuove e interessanti prospettive terapeutiche, considerando la relazione positiva dimostrata tra neurogenesi e attività cognitiva nei modelli animali fino ad ora studiati.

Gli effetti positivi della corsa

Numerosi studi hanno iniziato così a indagare gli effetti della corsa, o più in generale dell’attività fisica aerobica, su parametri fisiologici e cognitivi nell’uomo. E in generale, i risultati indicano che gli effetti riscontrati sui roditori sono in gran parte traslabili agli uomini.

La corsa nell’uomo ad esempio, oltre ad avere un importante ruolo nel contenere il tessuto adiposo, è un potente stimolatore di ormoni e dei fattori neurotrofici (come il fattore BDNF) considerati modulatori della plasticità neurale: la proprietà dei circuiti del cervello che ci permette di adattarci agli stimoli dell’ambiente, e ci aiuta quindi a modulare risposte corrette – ad esempio – allo stress (Voss MW et al., 2013).

Inoltre, studi condotti su campioni rilevanti di popolazione indicano che le performance scolastiche di studenti che praticano sport in modo costante sono in media superiori rispetto a quelle dei sedentari (Donnely JE et al., 2009; Chaddock L et al., 2012). Questi dati confortanti suggeriscono come l’attività sportiva aerobica, non solo la corsa ma anche solo la camminata veloce, siano pratiche fondamentali per preservare la salute del nostro cervello, e nello specifico funzioni cognitive come memoria e apprendimento, abilità che si riducono in seguito a patologie neurodegenerative, o come conseguenza del normale processo di invecchiamento.

Una corsa contro il tempo

Nonostante questi dati incoraggianti, è importante sottolineare la necessità di sviluppare ulteriori studi in questo settore, sia per l’ovvia difficoltà di identificare la produzione di nuovi neuroni nei cervelli umani, sia perché i dati disponibili sono spesso basati su campioni eterogenei per età, sesso e tipo di attività svolta, generando risultati frammentari.

La ricerca in questo campo ha, prima di tutto, il compito di divulgare dati che aiutino a promuovere corretti stili di vita: favorire il mantenimento della plasticità cerebrale. Ma la ricerca ha anche l’esigenza di creare reti con associazioni sportive: l’obiettivo è analizzare ampi campioni di corridori amatoriali, monitorarne l’attività e valutarne capacità cognitive (memoria e apprendimento), abilità fisico-motorie (come la forza della mano) o propriocettive (relative alla percezione del proprio corpo) che, al pari degli aspetti cognitivi, rappresentano fragilità tipiche della terza età.

Il progressivo allungamento dell’aspettativa di vita in Occidente (e la relativa crescita dei costi sanitari e di assistenza) rende particolarmente urgente concentrare gli sforzi – e i finanziamenti – su studi di questo tipo, che possano cioè aiutare a prevenire o allontanare nel tempo gli effetti dell’invecchiamento.

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